Una «cupola» alla guida di una «base». Sono queste le parole usate dai giudici della Corte d’Appello di Torino per raccontare la struttura dei Drughi, storico gruppo di ultrà della Juventus, nelle motivazioni di una sentenza che per la prima volta incolla a una tifoseria organizzata l’etichetta di associazione per delinquere. Una struttura a piramide, con capi e «colonnelli» che esercitavano sul resto dei membri «un’autorità indiscutibile e in effetti mai messa in discussione». Espressioni forti, quelle dei magistrati, capaci di evocare suggestioni e scenari più facilmente collegabili, in apparenza, ad altre forme di criminalità. E che ora risuonano ancora più fragorose alla luce della nuova inchiesta che ha coinvolto gli ultras di Inter e Milan e ha portato a un totale di 19 arresti.
Delle cinque condanne torinesi, pronunciate in secondo grado lo scorso aprile e ora in attesa del vaglio della Cassazione, la più alta è stata riservata all’imputato Dino Mocciola: otto anni di carcere, pena quasi raddoppiata per quello che era considerato il leader dei Drughi (in primo grado il Tribunale aveva inflitto una pena a quattro anni e dieci mesi). Per Salvatore Cava, Sergio Genre, Umberto Toia e Giuseppe Franzo le condanne sono stata rispettivamente a quattro anni e sette mesi, quattro anni e sei mesi, quattro anni e tre mesi, tre anni e undici mesi.
Il processo, chiamato Last Banner, non riguarda le infiltrazioni della ‘ndrangheta nella curva bianconera (argomento preso in esame nel corso di un’inchiesta giudiziaria di qualche anno prima, ribattezzata Alto Piemonte). Però punta il dito sullo spirito di iniziativa di certi ultrà che, fra il 2018 e il 2019, avrebbero ingaggiato un “braccio di ferro” con la Juventus per piegarla ai propri voleri: quelle che sembravano comuni intemperanze da stadio, come lo sciopero del tifo, le contestazioni, le scritte oltraggiose o i cori discriminatori, secondo l’accusa servivano a «tenere sotto scacco la società e costringerla a concedere agevolazioni non dovute», tra cui la concessione di biglietti gratis per gli striscionisti o qualche tagliando in più per le trasferte in Champions League. Un crescendo di pressioni in cui la procura ha fatto rientrare anche la minaccia di spifferare a Report presunti retroscena sulla vecchia vicenda degli ‘ndranghetisti: «Così vi rompiamo il c…».
Alla fine la Juventus (che nel processo si è costituita parte civile) presentò una denuncia e la Digos della Questura avviò un’indagine. Inutilmente gli imputati hanno sostenuto che si trattava di una semplice protesta contro il caro biglietti. Per gli inquirenti le ragioni erano altre. E a farne le spese erano anche i tifosi “ordinari”, costretti a non cantare, a non esultare, a non sedersi nel posto assegnato. Con la forza dell’intimidazione che può esercitare solo «una cupola». I giudici d’appello, a questo proposito, riportano una intercettazione dove un tifoso si lamenta perché i capi «fanno i prepotenti» e trattano i membri della base come fossero dei loro «dipendenti».